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Il ruolo del Consiglio di Cooperazione del Golfo nel panorama del Vicino Oriente

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E’ di pochi giorni la notizia di un invito formale da parte del Gulf Cooperation Council (GCC) nei confronti di Marocco e Giordania ad aderire all’organizzazione regionale che raggruppa i Paesi dell’area del Golfo. La proposta di allargamento ai due Paesi, anch’essi monarchici e sunniti, potrebbe ampliare gli obiettivi non solo ad un semplice contenimento iraniano nell’area – che verrebbe rafforzato grazie alla presenza delle due monarchie tendenzialmente conservatrici degli Hashemiti di Giordania e degli Alawiti di Marocco – ma anche all’intenzione di arginare le proteste di questi mesi nella regione MENA (Middle East and North Africa), attraverso, cioè, una sorta di alleanza stabile tra le monarchie arabe. Questa iniziativa guidata da ragioni di carattere politico, economico e sociale, potrebbe comportare vantaggi reciproci: da un lato, le economie di Giordania e Marocco – tra le più povere dell’intera area MENA, secondo gli indicatori del FMI e della Banca Mondiale – potrebbero giovarsene in quanto anche altre economie non petrolifere, come il Bahrain, hanno potuto usufruire del sostegno fiscale e finanziario degli Stati membri; dall’altro lato, l’organizzazione, allargando la sua membership potrebbe meglio affrontare le ondate rivoluzionarie nell’area. Come riportato dal canale satellitare qatariota al-Jazeera, il GCC raggiungerebbe un duplice scopo: per paura di una possibile estensione delle rivolte nell’area del Golfo si garantirebbe la protezione dalle minacce provenienti dall’interno e, contemporaneamente, terrebbe alta l’attenzione contro eventuali mosse iraniane.

Origini ed evoluzione del Consiglio di Cooperazione del Golfo

L’organismo, creato nel 1981 sotto la duplice pressione statunitense e saudita, aveva come obiettivo immediato quello di proteggere la regione del Golfo dal pericolo rappresentato dalla guerra Iran-Iraq e dai possibili riflessi della rivoluzione khomeinista negli altri Paesi. Il GCC è attualmente composto da sei Stati (Kuwait, Qatar, Bahrain, Oman, Emirati Arabi Uniti e la stessa Arabia Saudita), monarchie sunnite legate da vincoli religiosi o familiari ai Saud. Il GCC ha sviluppato fin dalla sua nascita compiti essenzialmente economici e sociali, lasciando in secondo piano le questioni politiche, raramente affrontate nel consesso e lasciate alla sfera di autonomia degli Stati membri. L’organizzazione ha per scopo, dunque, l’instaurazione nel Golfo di un Mercato Comune sul modello europeo – ufficialmente raggiunto il 1 gennaio 2008 – come prima tappa di una moneta unica (Khaliji) che sarebbe dovuta essere stata adottata nel 2010 da tutti i membri. Negli anni il GCC è riuscito a lanciare un sistema di libero mercato che si prefiggeva la stabilità e l’unificazione politico-economica degli Stati firmatari l’accordo di Riyadh del 1981. Negli ultimi anni, però, il graduale aumento dell’influenza regionale dell’Iran e la comune percezione della minaccia sciita hanno spinto i membri del GCC a potenziare la cooperazione militare dell’organizzazione. Già dal 1984, l’organizzazione ha iniziato ad istituire una gruppo inter-force di difesa comune, chiamato “Peninsula Shield”. Pur iniziando a modificare i suoi obiettivi originari da cooperazione economica a politico-militare, in realtà, i Paesi del CCG sono sempre rimasti dipendenti dalle garanzie di sicurezza e dai finanziamenti degli Stati Uniti, come è avvenuto durante la guerra del Golfo (1990-1991), in cui un suo membro (l’Arabia Saudita), pur tra le diffidenze degli altri, concesse le sue basi per le azioni militari. Proprio gli Stati Uniti ne hanno incoraggiato l’evoluzione, auspicando, come recentemente affermato dal Generale David Petraeus, neo-direttore della CIA, la creazione di una forza militare integrata fra i Paesi membri. Infatti, dal punto di vista della stabilità interna, l’organizzazione agisce seguendo l’art. 1 della propria Carta (una sorta di art. 5 della Carta Atlantica): l’aggressione contro un qualsiasi membro è considerata un’aggressione contro gli altri. Proprio per questo motivo, in occasione delle rivolte in Bahrain, Riyadh ha inviato a Manama le sue truppe, dietro avallo del GCC, a cui si è unito anche il contingente kuwaitiano ed emiratino, consentendo alla monarchia sunnita degli al-Khalifa di continuare a mantenere il potere.

Attivismo politico del GCC

Dopo l’azione in Bahrain, l’organizzazione ha incrementato il suo prestigio e il suo attivismo, adoperandosi, dapprima, nel sostenere la campagna militare della NATO in Libia, e successivamente, proponendosi come intermediario nella difficile transizione yemenita – pur non essendo lo Yemen membro di tale organizzazione regionale. La decisione di intervenire in Yemen è dovuta al fatto che il Paese è confinante con Arabia Saudita e Oman, paesi geo-strategicamente importanti, e la sua instabilità potrebbe essere un detonatore per altre rivolte nell’area e per una diffusione di cellule terroristiche in territorio saudita.

Cosa comporta l’allargamento del GCC a Giordania e Marocco? Innanzitutto, questi due Paesi non si affacciano sul Golfo e culturalmente sono molto lontani dal tradizionalismo autoritario delle monarchie dell’area. In secondo luogo, a differenza proprio delle monarchie del Golfo, Amman e Rabat sono viste nel mondo come delle case regnanti tendenzialmente propense a concedere riforme che, però, non debbano costituire un pericolo per il potere centrale. Infine, le rivolte nell’area Golfo sono state avvertite da tutti i governi della regione come una minaccia, soprattutto, alla loro struttura economica e al ruolo centrale che il GCC ha raggiunto nella politica estera, anche a discapito della Lega Araba. Infatti, la scelta di non intervenire in Yemen e in Bahrain lasciando carta bianca al Consiglio di Cooperazione del Golfo, il silenzio sulla rivolta siriana e l’ambiguità sulla situazione in Libia hanno mostrato l’ascesa regolare e l’accresciuto potere politico del GCC nei confronti del più importante consesso del mondo arabo. Quel che preoccupa il GCC è che l’effetto domino della “Primavera Araba” potrebbe minare il flusso di investimenti stranieri nella regione e incrinare i rapporti con l’Occidente, e in particolar modo, con il solido alleato statunitense. Sembrerebbe emergere, pertanto, con maggior vigore, l’intento di arginare i crescenti movimenti di protesta all’interno e di contenere l’attivismo regionale iraniano attraverso un allargamento del “fronte delle alleanze”.

Ad ogni modo, l’eventuale allargamento a Giordania e Marocco non sarebbe stato condiviso da tutta l’organizzazione e Kuwait, Oman e Qatar avrebbero espresso riserve, suggerendo tutt’al più una “partnership privilegiata” e non una piena adesione. E’ emerso in modo evidente che le logiche che stanno guidando le recenti azioni del GCC sono dettate dagli interessi geopolitici e geostrategici dell’Arabia Saudita: infatti, da un lato si è evidenziata la necessità di fronteggiare il nemico storico, l’Iran e, in quest’ottica, la Lega Araba, sembra non riuscire a contenere le schermaglie interne; dall’altro lato c’è l’interesse a perpetuare la propria egemonia e, pertanto, le proteste di questi mesi risultano un pericolo molto grande alle economie petrolifere dei Paesi in questione.

La questione iraniana

Il pericolo iraniano, reale o percepito, viene vissuto dai Paesi del Golfo con notevole apprensione. I segnali di riavvicinamento tra Egitto e Iran – dopo 32 anni di rottura delle relazioni diplomatiche – le rivolte nelle regioni con una importante popolazione di religione sciita nell’area Golfo – in Bahrain, in Yemen e nel Qatif, il più ricco bacino petrolifero nell’area orientale dell’Arabia Saudita – e la fragile stabilità dell’Iraq – il governo del premier Nuri al-Maliki dipende pesantemente dall’appoggio dello sciita Moqtada al-Sadr (che controlla circa 40 seggi in Parlamento) – sono segnali di quanto la situazione possa giocare a favore di Teheran. I timori dell’organizzazione sono coincidenti con quelli della casa dei Saud. Per sedare sul nascere le vibranti proteste nel Paese, Re Abdallah bin Abdul Aziz ha annunciato un piano di 36 miliardi di dollari statunitensi per rilanciare l’economia nazionale e ha spedito nel Qatif ben 10.000 militari per tenere sotto controllo eventuali rivolte a carattere sciita. Infatti, l’Arabia Saudita, come già dimostrato in Bahrain, non ha alcun interesse ad un contagio rivoluzionario e, allo stesso tempo, non può permettersi neppure l’esplosione di un conflitto incontrollato vicino ai suoi confini, come potrebbe avvenire in Yemen.

Il ruolo statunitense

Gli Stati Uniti, storico partner politico e commerciale di tutti i Paesi del GCC, sono rimasti spiazzati da questa iniziativa. L’Arabia Saudita, infatti, non godrebbe più dei rapporti privilegiati con l’alleato statunitense e avrebbe mostrato insofferenza nei suoi confronti in virtù delle critiche dell’amministrazione Obama sull’intervento saudita in Bahrain e sullo scarso rispetto dei diritti umani nel Paese. Tale disappunto è stato manifestato da Riyadh attraverso una nota congiunta a nome del GCC. Pur non mettendo in dubbio i rispettivi interessi strategici, l’Arabia Saudita avrebbe minacciato, insieme agli altri Paesi del GCC, di non esser più disposta a fronteggiare le esigenze politiche di Washington nella regione, con particolare riguardo alle questioni relative all’Iran e alla pace nel Vicino Oriente. Pertanto, la Casa Bianca vedrebbe nella proposta di allargamento del GCC un tentativo saudita di trascinare due Paesi sostanzialmente moderati come Giordania e Marocco nella sua sfera di influenza. Inoltre, l’attuale amministrazione statunitense sembrerebbe voler smarcare la propria immagine nella regione dall’atteggiamento interventista dell’era Bush. Come puntualizzato in un intervento del Professore Fish ad al-Jazeera: «Obama non vuole essere visto come un bullo o come un predicatore ipocrita, a questo proposito egli intende differenziarsi chiaramente da Bush. Le rivolte stanno dimostrando i limiti del potere finanziario saudita di influenzare gli eventi in una regione la cui popolazione è stufa di tirannia». E le ire saudite possono spiegarsi alla luce del precedente egiziano. Obama dapprima ha sostenuto il Presidente Mubarak, ma quando la sua popolazione ha deciso che fosse giunto il momento di cambiare, l’intera amministrazione statunitense ha appoggiato le masse popolari egiziane. Il timore saudita risiede proprio in questo episodio: pur essendoci legami economico-politico-finanziari importantissimi, i sauditi non son più sicuri dell’appoggio incondizionato alle loro iniziative in patria e nella regione. Pertanto, la frattura esistente tra Arabia Saudita e Stati Uniti potrebbe approfondirsi. Ad ogni modo, proprio la sussistenza di timori condivisi farebbe pensare che, nonostante le attuali divergenze politiche, gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e i Paesi del GCC troveranno un accordo per mantenere gli stretti rapporti militari e consolidare i propri legami strategici. Tuttavia, questa situazione potrebbe cambiare in futuro.

Prospettive e conclusioni

Un GCC così rivitalizzato sta modificando strategie e alleanze, mettendo alla prova il tradizionale ruolo degli USA come unico garante della stabilità del Golfo. In maniera sempre più chiara, la regione si trova di fronte non solo a sconvolgimenti interni, ma ad una potenziale “rivoluzione” nella sua stessa architettura di sicurezza. Difatti, si assiste ad una svolta nel “nuovo” GCC, in virtù del fatto che l’organizzazione del Golfo ha dismesso i panni di un sistema di cooperazione economica evolvendosi in un patto di tipo militare-strategico sullo stile del vetusto Patto di Baghdad (1955). Sembra evidente la mancanza di linee politiche chiare,tuttavia, ci si chiede, ad esempio, come la Giordania o il Marocco potranno adattarsi al modello di integrazione economica del GCC, viste le specifiche condizioni di partenza. D’altra parte, l’allargamento a Marocco e Giordania potrebbe intensificare le linee di conflitto regionale sia tra “rivoluzione e controrivoluzione”, sia tra sunniti e sciiti, mentre gli sforzi riformisti potrebbero cadere nel dimenticatoio. Infine, il nuovo GCC, e in particolare il ruolo dell’Arabia Saudita, potrebbe risultare in netto contrasto con gli Stati Uniti in merito al futuro delle riforme arabe e alle priorità statunitensi nell’area. Come sottolineato dagli stessi sauditi, le relazioni tra GCC e Stati Uniti potrebbero cambiare a causa di divergenze politiche e di interessi forti che coinvolgono entrambe le parti. Al momento attuale, le relazioni strategiche tra il GCC e gli Stati Uniti sembrano comunque stabili, ma l’emergere di nuove realtà o minacce, nel breve o medio periodo, potrebbero condurre all’incrinarsi di questo patto strategico. Washington, nel relazionarsi ad un nuovo scenario modificato a livello regionale – e quindi internazionale – potrebbe legarsi di volta in volta ad alleati ritenuti affidabili solo a seconda delle proprie esigenze politiche, relazioni che, si potrebbe prefigurare, non vadano oltre gli intervalli di quattro anni, proprio come gli anni di durata di un mandato presidenziale negli Stati Uniti.

* Giuseppe Dentice, Dottore in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Siena)

 


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