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Tutta una questione di voti. Geografia elettorale degli Usa

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I cambiamenti che stanno investendo la società statunitense rendono molto difficile riuscire a inquadrarne i comportamenti elettorali da un punto di vista geografico. La crisi economico-politica prima e quella sociale poi hanno messo in discussione le rigide categorie con le quali si era soliti suddividere le tendenze elettorali stato per stato. Di fronte al declino del proprio paese e alla paura di perdere i diritti sociali, gli elettori, da Obama in poi, sono diventati meno tradizionalisti e il loro comportamento sempre meno prevedibile.

 

 

Dati, tabelle e grafici sono sempre un po’ noiosi da trattare ma in questo caso sono stati indispensabili. L’obiettivo era quello di studiare la distribuzione geografica del voto negli Stati Uniti per capire se effettivamente le varie teorie secondo cui gli stati ricchi e costieri apparterrebbero alla sfera democratica mentre quelli poveri e interni a quella repubblicana, rispecchiassero la realtà. Il concetto di geografia politico-elettorale stride con l’attualità e in particolare con le dinamiche che scuotono oggigiorno la società statunitense. Un’analisi di questo tipo presenta un carattere rigido e deterministico in quanto tende a inquadrare in maniera poco flessibile comportamenti politici, elettorali e sociali all’interno di sistemi geografici chiusi, limitati dai confini amministrativi di uno Stato. Per definizione non tiene conto delle variabili che fanno parte del gioco elettorale, né tantomeno della volubilità dell’elettorato, in Nordamerica come in qualsiasi altro paese del mondo. Ma, contro ogni previsione, dati alla mano e statistiche sott’occhio, l’approccio geo-elettorale non sembra avere ancora esaurito il suo potenziale analitico nei confronti di questo Paese che pare proprio non voglia smettere di stupire.

 

 

Limiti della geografia elettorale

Quali sono le ragioni dell’anacronismo di questo approccio? Innanzitutto, come tutti gli approcci di natura statistica e generalizzante, sottintende una certa staticità del comportamento del soggetto, in questo caso dell’elettore.

Questo tipo di analisi ben si adatta a tutti quei contesti in cui il voto viene stabilito più per una questione di militanza o partigianeria per un’area politica piuttosto che attraverso una sintesi dei contenuti delle campagne elettorali. La generalizzazione che ne consegue, però, tende a limitarne e invalidarne il risultato. Inoltre l’esplosione del fenomeno della comunicazione politica a cui si è assistito negli ultimi anni, Stati Uniti in testa, ha provocato un deciso cambiamento di rotta. La campagna elettorale di Barack Obama ha aperto la strada a un nuovo tipo di dialogo con la cittadinanza, convincendo al confronto anche i più scettici avversari. Risulta quindi difficile che i rigidi parametri utilizzati per suddividere geograficamente gli elettori di destra e quelli di sinistra all’interno dei confini degli Usa possano continuare a essere validi ancora per molto.

 

Esiste tuttavia uno zoccolo duro della società statunitense che non rinuncerebbe per nessun motivo alle proprie preferenze personali, alle tradizioni familiari o a quelle che storicamente caratterizzano il territorio di appartenenza. E proprio qui entra in gioco la geografia politica, nelle aree impermeabili al cambiamento e a qualsiasi campagna elettorale. Il segreto dell’urna ha altresì riservato spesso delle grandi sorprese in territorio nordamericano, oggi come ieri. Lo dimostra, per esempio, il risultato delle elezioni presidenziali del 1988 quando gli Stati Uniti furono chiamati a scegliere il successore di Ronald Reagan. Lo sconvolgimento totale della mappa geografico-elettorale che ne derivò, affascinante dal punto di vista sociologico, seguì delle dinamiche difficilmente inquadrabili dal punto di vista territoriale.

 

Esiste un’altra peculiarità comportamentale della società statunitense che merita di far parte del novero delle variabili che contribuiscono a plasmare la decisione di voto. Si tratta della straordinaria passione, tutta americana, che gli elettori manifestano nei confronti dell’appuntamento elettorale con le presidenziali. Per questo motivo si è scelto di provare a fotografare la situazione elettorale Usa attraverso i dati di alcune tra le più recenti tornate elettorali presidenziali con un gradiente temporale che va dal 1988 (Bush senior) al 2008 (Obama), passando per il 1992 (Clinton) e il 2004 (Bush junior). Il dato percentuale che tanto va di moda non rende però giustizia alla delicata congiuntura storica che gli Stati Uniti stanno attraversando.

La crisi che ha travolto il Paese è nata e si è sviluppata come una crisi economica ma si è trasformata in qualcosa di diverso, di più profondo. Essa ha portato alla luce la vulnerabilità che caratterizza la società statunitense attuale e che è inevitabilmente destinata a riflettersi anche sul comportamento elettorale dei cittadini. Gli Usa stanno lentamente perdendo il ruolo di super potenza assoluta che li ha contraddistinti per quasi un secolo e che ha loro garantito di poter osservare il mondo con un briciolo di superiorità, sicuri della propria inattaccabilità. Il passaggio di consegne sta provocando un sentimento di insicurezza tangibile, sia a livello istituzionale sia popolare. Il governo federale sta affrontando in maniera incerta questo crocevia, riluttante all’idea di condividere il palcoscenico mondiale con altri attori protagonisti. L’elettore statunitense, patriottico e appassionato ma anche spaesato, scruta l’arena politica per cercare la tutela dei propri interessi, ma anche quella del proprio Paese. È evidente che siffatta situazione poco si adatti all’approccio statistico della geografia elettorale che non sarebbe in grado di tracciarne le dinamiche. La sensazione di ansia e impotenza che pervade il popolo nordamericano potrebbe trasformarsi, dal punto di vista elettorale, in voti imprevedibili e contraddittori. Del resto, si è discusso ampiamente di come molti degli elettori dichiaratamente pro Obama si siano poi fatti cogliere dal cosiddetto ‘razzismo dell’urna’, indicando una preferenza diversa da quella manifestata.

 

I dati

Perché le presidenziali e non le midterm? L’elezione del presidente degli Stati Uniti provoca sempre un certo sconvolgimento della cartina politica del Paese e inoltre mette in campo una passione che influenza in maniera più decisiva i comportamenti dell’elettorato rispetto alle elezioni di medio termine in cui, al contrario, entrano in gioco fattori meno generalizzabili e in molti casi destinati a essere riscritti completamente nel giro dei due anni successivi. Le midterm hanno certamente un profondo significato politico perché rendono atto delle scelte realizzate dall’amministrazione centrale ma proprio per questo potrebbero ancora più delle presidenziali non avere niente a che fare con il background politico del singolo elettore o del risultato complessivo registrato in uno stato piuttosto che in un altro. Da questo punto di vista, invece, l’appuntamento con le presidenziali scaturisce un coinvolgimento tale da trasformarsi nell’urna in una scelta di campo tout court.

 

Il risultato elettorale del 2008 era atteso da molti come un segno tangibile di rottura con l’amministrazione di George W. Bush. Rispetto ai quattro anni precedenti la mappa geo-elettorale del Paese si è, infatti, tinta di blu e ha regalato ai democratici alcuni risultati molto importanti e tali da mettere in discussione le cosiddette vocazioni, democratiche o repubblicane, dei singoli Stati. Tanto che Obama, la notte della vittoria, sul palco di Grant Park, a Chicago, dichiarò: “È la risposta data da giovani e vecchi, ricchi e poveri, democratici e repubblicani, bianchi, neri, ispanici, asiatici, nativi americani, omosessuali, eterosessuali, disabili e non disabili, americani che hanno lanciato un messaggio al mondo che dice che noi non siamo mai stati un insieme di Stati blu e Stati rossi ma che siamo e sempre saremo gli Stati Uniti d’America”.

 

Uno sguardo ai dati:

 

2008 2004 1992 1988
DEM REP DEM REP DEM REP DEM REP
California 61% 37% 55% 44% 46% 33% 48% 51%
Texas 44% 56% 38% 61% 37% 41% 43% 56%
New York 62% 37% 58% 40% 50% 34% 52% 48%
Florida 51% 48% 47% 52% 39% 41% 39% 61%
Illinois 62% 37% 55% 45% 49% 34% 49% 51%
Pennsylvania 55% 44% 51% 49% 45% 36% 48% 51%
Ohio 51% 47% 49% 51% 40% 38% 44% 55%
Michigan 57% 41% 51% 48% 44% 36% 46% 54%
Georgia 47% 52% 41% 58% 43% 42% 40% 60%
Nord Carolina 50% 49% 44% 56% 42% 43% 42% 58%
New Jersey 57% 42% 53% 46% 43% 41% 43% 56%
Virginia 53% 46% 45% 54% 41% 45% 39% 60%
Massachussets 62% 36% 62% 37% 48% 29% 53% 45%
Washington 57% 41% 53% 46% 43% 32% 50% 48%
Indiana 50% 49% 39% 60% 37% 43% 40% 60%
Arizona 45% 54% 44% 55% 37% 38% 39% 60%
Tennessee 42% 57% 42% 57% 47% 42% 42% 58%
Missouri 49% 49% 46% 53% 44% 34% 48% 52%
Maryland 62% 37% 56% 43% 50% 36% 48% 51%
Wisconsin 56% 42% 50% 49% 41% 37% 51% 48%
Minnesota 54% 44% 51% 48% 43% 32% 53% 46%
Colorado 54% 45% 47% 52% 40% 36% 45% 53%
Alabama 39% 60% 37% 63% 41% 48% 40% 59%
Sud Carolina 45% 54% 41% 58% 40% 48% 38% 62%
Luisiana 40% 59% 42% 57% 46% 41% 44% 54%
Kentucky 41% 57% 40% 60% 45% 41% 44% 56%
Oregon 57% 41% 51% 48% 42% 33% 51% 47%
Oklahoma 34% 66% 34% 66% 34% 43% 41% 58%
Connecticut 61% 38% 54% 44% 42% 36% 47% 52%
Iowa 54% 45% 49% 50% 43% 37% 55% 45%
Mississippi 43% 56% 40% 60% 41% 50% 39% 60%
Arkansas 39% 59% 45% 54% 53% 35% 42% 56%
Kansas 41% 57% 36% 62% 34% 39% 43% 56%
Utah 35% 62% 26% 71% 25% 43% 32% 66%
Nevada 55% 43% 48% 50% 37% 35% 38% 59%
New Mexico 57% 42% 49% 50% 46% 37% 47% 52%
West Virginia 43% 56% 43% 56% 48% 35% 52% 47%
Nebraska 42% 57% 32% 67% 29% 47% 39% 60%
Idaho 36% 62% 30% 60% 42% 28% 36% 62%
Maine 58% 41% 53% 45% 39% 30% 44% 55%
N. Hampshire 54% 45% 50% 49% 39% 38% 36% 62%
Hawaii 72% 27% 54% 45% 48% 37% 54% 45%
Rhode Island 63% 35% 60% 39% 47% 29% 56% 44%
Montana 47% 50% 39% 59% 38% 35% 46% 52%
Delaware 62% 37% 53% 46% 44% 35% 43% 56%
Sud Dakota 45% 53% 38% 60% 37% 41% 47% 53%
Alaska 38% 60% 35% 62% 30% 39% 36% 60%
Nord Dakota 45% 53% 35% 63% 32% 44% 43% 56%
Vermont 68% 31% 59% 39% 46% 30% 48% 51%
D.C. 93% 7% 90% 9% 85% 9% 83% 14%
Wyoming 33% 65% 29% 69% 34% 40% 38% 61%

(fonte: New York Times – US Elections Atlas)

 

 

Sui cinquanta Stati (più il Distretto di Columbia) che compongono la Federazione sono stati nove quelli che hanno cambiato colore rispetto alla precedente tornata elettorale. Di questi nove Stati (Florida, Ohio, Nord Carolina, Virginia, Indiana, Colorado, Iowa, Nevada e New Mexico) soltanto per quattro di loro (Florida, Nord Carolina, Virginia e Indiana) si è trattato di una vera e propria rottura con il passato repubblicano, in riferimento alle elezioni campione analizzate. Gli altri cinque invece hanno confermato la loro volubilità manifestando negli anni un’evidente incertezza che li ha portati una volta a destra e una volta a sinistra (letteralmente). Questo non sminuisce affatto la potenza del segnale inviato dal candidato Obama ma mette effettivamente in discussione la dimensione geografica della lettura del risultato elettorale.

 

Sono invece ventidue gli Stati che, almeno per quanto riguarda le annate prese in considerazione, hanno avuto un comportamento elettorale costante nel tempo dimostrando un’effettiva militanza politica duratura e difficilmente scalfibile dagli eventi e dalle campagne elettorali. Tra i nove Stati ‘blu’ (New York, Massachussets, Washington, Wisconsin, Minnesota, Oregon, Hawaii, Rhode Island, D.C.) tre si trovano sulla costa atlantica, due su quella pacifica, due nella regione dei Grandi Laghi e l’ultimo è un arcipelago del Pacifico centrale. Fra i tredici Stati ‘rossi’ (Texas, Arizona, Alabama, Sud Carolina, Oklahoma, Kansas, Utah, Nebraska, Sud Dakota, Alaska, Nord Dakota, Wyoming, Mississippi) tre fanno parte del Sud storico, altri tre rientrano nell’area del Sud Ovest (culturalmente diverso dal Sud vero e proprio), ben sei si collocano nell’interno del Paese, tra il Midwest e le Praterie, e uno invece si trova nell’estrema punta settentrionale degli Stati Uniti, quasi più vicino alla Russia che alla capitale Washington D.C.

Questo veloce sguardo al campione di dati raccolto sembra dare ragione alla tesi di Phil Kelly che in un recente saggio su Eurasia aveva sostenuto che: “(…) le aree ‘blu’, ossia democratiche, sono tendenzialmente adiacenti all’oceano e ai grandi laghi, dunque costiere; le regioni ‘rosse’, repubblicane, si trovano per lo più all’interno, ad esempio nel Sud e nella prateria (…)”.

A tutti gli effetti, una delle poche, se non l’unica possibile, certezze della mappa geografico-elettorale del Paese.

 

Caso particolare è quello registrato nel 1988. In quell’anno terminava la lunga presidenza di Ronald Reagan e gli elettori erano chiamati a scegliere tra la continuità, rappresentata dalla candidatura di George Bush (vice di Reagan), o la rottura, riportando alla Casa Bianca un presidente democratico dopo otto anni. Ben quaranta stati su cinquanta (più il Distretto di Columbia) si sono tinti di rosso regalando a Bush un vero e proprio trionfo. La tabella mostra che fra questi sono ben undici gli Stati considerati fedeli all’area democratica sulla base del fatto che in tutte le tornate elettorali successive – prese in esame in questa sede – hanno confermato la loro collocazione a sinistra. Un punto di rottura decisivo sotto il profilo geografico-elettorale. La vittoria dei repubblicani e in particolare di un uomo che rappresentava il naturale proseguimento del lavoro dell’amministrazione uscente si spiega probabilmente con l’apprezzamento delle scelte politiche ma soprattutto economiche di Reagan. Il neo liberismo con cui il presidente repubblicano decise di arginare le conseguenze dello shock petrolifero convinsero l’opinione pubblica più di qualsiasi sentimento di appartenenza politica. Per questo e con un occhio di riguardo alle proprie tasche, gli americani decisero di consegnare i loro successivi quattro anni a quello che evidentemente consideravano il degno successore di Ronald Reagan. Ma probabilmente così non è stato, o almeno questo è quanto sembrerebbero testimoniare i dati dal momento che, complice anche la decisione di dichiarare guerra all’Iraq di Saddam Hussein, Bush non fu confermato alla Casa Bianca per il secondo mandato.

 

Geografia elettorale e Pil

È interessante confrontare i dati geo – elettorali con la distribuzione del Pil (che negli Stati Uniti si chiama Gross Domestic Product) stato per stato per verificare se esista una corrispondenza geografia/reddito e conseguentemente voto/reddito. Questa carta tematica evidenzia secondo un gradiente di colori la ricchezza di ciascun stato con dati del Bea (Bureau of Economics Analysis) aggiornati all’anno 2009. Il prodotto interno diminuisce mano a mano che si passa dal blu scuro a quello chiaro e poi al bianco. La ricchezza diminuisce ancora dal giallo chiaro a quello scuro. È evidente che gli Stati più ricchi sono concentrati sulla costa atlantica e sulla regione dei Grandi Laghi, in pieno accordo con il dato che assegna a queste regioni una tradizione politica di stampo marcatamente democratico. L’elaborazione dei dati di voto assegnava alla sfera democratica anche la costa pacifica dove in effetti è segnalato un Pil molto elevato in California e nello stato di Washington. L’Oregon e le Hawaii, invece, pur con una vocazione elettorale democratica addirittura più forte rispetto a quella californiana, sempre secondo il campione di dati analizzato, segnalano in controtendenza un prodotto interno medio-basso. Fra i tredici Sati che la tabella ha assegnato al circuito repubblicano, invece, si registrano valori di Pil mediamente più bassi ma con un’evidente eccezione rappresentata dal Texas che si classifica fra gli Stati più ricchi.

Secondo i dati del Bea sono undici gli Stati che registrano valori di Gdp decisamente bassi rispetto alla media nazionale. Ed è interessante notare che fra questi cinque gravitano politicamente intorno alla sfera democratica (secondo i dati delle quattro tornate elettorali prese in esame, infatti, Delaware, Vermont, Rhode Island, Maine e New Hamphire hanno quasi sempre votato a sinistra tranne, in alcuni casi, che per la già menzionata elezione di George Bush senior) e i restanti sei invece vantano una radicata tradizione di voto repubblicana.

I dati sembrerebbero quindi far vacillare le tesi semplicistiche secondo cui gli Stati più ricchi sarebbero democratici mentre quelli più poveri repubblicani. Certamente esiste una tendenza che assegna al centro sinistra molti Stati con un reddito medio alto e al centro destra Stati che registrano valori mediamente più bassi. Ma è vero anche che tra gli Stati più poveri c’è una spaccatura che ne assegna metà all’asinello e l’altra all’elefante. Anche perché, al contrario, sarebbe assai arduo riuscire a spiegarne le cause e a constestualizzarle con la società statunitense dei nostri giorni.

 

Dopo tutta questa sfilza di dati, pur senza l’intento di fornire una spiegazione esaustiva alla distribuzione del voto in territorio Usa, ma piuttosto di evidenziare degli esempi che sottolineano alcune tra le più recenti tendenze elettorali del Nordamerica contemporaneo, potremmo concludere con le parole di Phil Kelly, apparse nel già menzionato saggio: “Possiamo dunque osservare una competizione tra aree costiere liberali e Stati dell’interno conservatori, una differenza geografica piuttosto chiara che porta ad una rigida e persistente frattura politica nella nazione. È piuttosto chiaro, a me e ad altri, che negli ultimi decenni la politica del governo federale si è fatta molto partigiana ed ostile, e dunque stagnante e persino ‘malsana’, quando s’è trovata alle prese con le questioni nazionali irrisolte. Le necessarie riforme sanitarie, l’immigrazione, le energie alternative, la vigilanza bancaria, le guerre internazionali ed altre questioni sono state semplicemente escluse dal dibattito, ed uno dei motivi principali risiede proprio nell’impasse politica tra questi due settori geografici nazionali. Aggiungerei tale fenomeno agli esempi del declino statunitense.”

 


 

 

* Matteo Finotto è laureato in Antropologia Culturale e laureando in Geografia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’università “Sapienza” di Roma

 

 

 

 


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