Fonte: “Geostrategie”
La scomparsa dell’Unione Sovietica, il 25 dicembre 1991, al crepuscolo di un secolo disincantato, non era solo la “più grande catastrofe geopolitica del secolo“, per citare la famosa affermazione di V. Putin. Segna infatti una profonda rottura politica e psicologica e la destabilizzante nell’immaginario inconscio del popolo russo. Segna anche un cambiamento radicale nel pensiero strategico russo, costretto ad abbandonare la visione di un mondo bi-polare troppo ideologico congelato nell’equilibrio del terrore nucleare, per una comprensione più realistica delle principali minacce che interessano la sua periferia, provenienti dall’Asia e dall’Occidente.
Il riorientamento della politica estera e strategica russa è stata inizialmente guidata da V. Putin, all’inizio degli anni 2000. Sulla base di un visione più eurasiatica degli interessi della Russia, quest’ultima riprende gli indirizzi di massima di E. Primakov, responsabile della politica estera russa nel periodo 1996-1998 e molto legato, in questo settore, ai vecchi principi sovietici. Per Mosca, si tratta allora di condurre una politica multi-vettoriale volta a creare un asse eurasiatico che riequilibri la bilancia del potere internazionale. Quest’ultimo, come è stato più volte denunciato da V. Putin – poi da D. Medvedev, dal 2008 – è, infatti, storicamente distorto a favore dell’asse USA- NATO. Questo spiega la permanenza delle rivendicazioni russe sulla necessità di un mondo multipolare, più democratico, contro l’unipolarità dell’attuale ordine mondiale liberale. Ma ciò spiega, in particolare, il mantenimento della sorprendente inerzia sovietica nel posizionamento strategico della Russia moderna, ancora una volta impaziente di esistere a livello internazionale, come attore importante e influente. L’atomo, da questo punto di vista, ha un ruolo privilegiato.
Tra riforme e inerzia, il pensiero strategico russo sostiene, in effetti, la centralità dell’atomo militare, sia come leva della sua identità geopolitica, che per la difesa degli interessi nazionali ampliati alla sua periferia post-sovietica (CIS) e, in ultima analisi, al suo ritorno sulla scena mondiale come grande potenza. Nella filiazione dell’atomo “rosso”, ereditato dal suo passato sovietico, la Russia post-comunista si ritrova ad affrontare nuove sfide nel cuore della scacchiera eurasiatica, e di fronte agli USA, guidata strutturalmente dalla linea “anti-russa” di Z. Brzezinski – ex consigliere per la sicurezza del presidente Carter e ora consigliere di Obama. Per Brzezinski, si tratta di evitare il “ritorno russo“, a qualunque costo.
Nel contesto di una latente conflittualità che riaffiora dai meandri della guerra fredda, e che minaccia la stabilità dello spazio post-sovietico, tra cui la dimensione strategica rafforzata dal suo potenziale energetico, la Russia moderna persegue una strategia di riconquista regionale che implica, da un lato, il consolidamento della sua cintura periferica, e poi, l’uscita dal suo isolamento politico dovuto all’accerchiamento. Questa configurazione incerta ha portato all’emergere di una forma più lieve di guerra “tiepida”, incentrata sul controllo economico e politico dell’Eurasia post-comunista, come parte di una partita a scacchi strategica tra russi, statunitensi e cinesi. In questo schema, le repubbliche dell’ex URSS diventano le questione centrale nella lotta per l’influenza, e non solo, nelle parole di Brzezinski, il “perno geopolitico” delle strategie offensive effettuate da dirigenti ambiziosi.
Tendenzialmente, e nonostante il recente riavvicinamento tra la Russia e USA celebrato dal vertice NATO-Russia di Lisbona nel novembre 2010, il discorso strategico riformato russo è permeato dalla forte preoccupazione della sicurezza, espressa dal ruolo primario della deterrenza nucleare – a prescindere del colore politico delle amministrazioni russe e statunitensi. In altre parole, a differenza della promessa illusoria di F. Fukuyama della “fine della storia” liberale, portatrice della pace eterna, la Russia è costretta alla vigilanza strategica sull’Eurasia.
Questo spiega come mai, nella nuova dottrina militare russa, sviluppata nel febbraio 2010, la NATO sia definita come la minaccia numero 1. Un anno dopo, nel febbraio 2011, la nuova strategia militare degli Stati Uniti ha ribadito il suo impegno a mantenere la leadership economica e militare per il prossimo decennio. Implicitamente, questa opzione presuppone il mantenimento della sua politica di manipolazione e di interferenza negli stati ‘pivot’ dell’ex URSS, perseguiti dalla linea Brzezinski. Per il momento, e come parte di una strategia preventiva, l’amministrazione Obama cerca di controllare – attraverso il “soft power” – le potenze “sensibili” con l’istituzione o la riattivazione di partenariati (Consiglio NATO-Russia, Partenariato per la Pace), di Alleanze (NATO) e di trattati politico-militari (START II).
A grandi linee, la politica della potenza statunitense è quella di contrastare le leadership strategiche che minacciano la sua posizione dominante in Eurasia, visto come il mezzo della stabilità globale, a nome del suo “destino manifesto“. In questa prospettiva, lo scudo ABM degli Stati Uniti, a vocazione sempre più globale, appare come uno strumento privilegiato per bloccare la linea strategica russa.
In definitiva, la tendenza a una NATO globale ad ampliare la propria area di responsabilità e a continuare la sua espansione nella zona ex comunista, o già sotto l’influenza russa, sembra essere il vettore di una strategia di accerchiamento pericolosamente ravvicinato a Mosca. L’inquietante inerzia, riemerge dalle profondità della Guerra Fredda.
Traduzione di Alessandro Lattanzio